L'ORDINARIO

Quaderno di appunti fotografici

Oltre l'immagine - Inconscio e fotografia

Oltre l'immagine - Inconscio e fotografia

Psicologia e fotografia, un rapporto affascinante soprattutto alla luce del periodo che stiamo vivendo: reclusione forzata da oltre 40 giorni causa pandemia, a cui si affiancano fedeli ansie, paure e domande, tante domande su quello sarà.

Di domande e analisi è composto il saggio “Oltre l’immagine – Inconscio e fotografia”, una piacevole scoperta (seppure tardiva) fatta spulciando tra gli scaffali di una libreria al centro di Palermo.

Un libro nuovo e diverso nel suo genere che cerca, attraverso la psicologia, di trovare nell’opera di alcuni autori contemporanei, nomi importanti e giovani emergenti, i meccanismi che hanno mosso le loro opere, in maniera consapevole o meno.

È il regno dell’immagine intimistica, della fotografia che si fa voce, dove l’artista sceglie di urlare o raccontare se stesso, prima di ogni altra cosa. È l’arte a offrire domande, e possibilmente risposte, al suo pubblico.

Quello che abbiamo tentato di fare con questo libro, spiega Sara Guerrini, curatrice insieme a Gabriella Gilli, è cercare l’uomo (l’autore) dentro le sue opere. Una ricerca a volte ostacolata dal fatto che questo racconto, sebbene spesso meditato e consapevole si intreccia con le necessità del mestiere: produrre immagini che piacciano a un fruitore, scegliere un linguaggio e farlo proprio, possibilmente pubblicare o vendere i propri lavori.

La particolarità del libro risiede nel fatto che gli artisti sono stati intervistati da psicoterapeute, e non curatori o critici, che usano l’arte e la fotografia nella terapia.

Ogni fotografia assume un significato, non solo per l’autore che l’ha prodotta, ma anche per l’osservatore, perché il processo proiettivo è costantemente in atto e quindi tutto quello che vediamo e produciamo è influenzato dal significato che noi diamo a quell’esperienza, a quella realtà, a quell’immagine.

Le analisi di questi incontri sono state suddivise in cinque categorie: Identità e corpo, autoritratto, relazioni, morte e luoghi.

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Antoine D'Agata, El Salvador, San Salvador 1998


Si inizia con Antoine D’Agata, un personaggio autentico, il cui mondo è fatto di violenza e piacere. Il fotografo vive in prima persona le esperienze che vuole narrare, e per farlo utilizza uno stile rende unico il suo lavoro: immagini sfuocate, mosse, corpi uniti, letti sfatti, ambienti cupi.

Il fotografo ricerca fino allo spasmo situazioni in cui, aiutato da sesso e droga, possa spingersi ai confini del buio, ai limiti della morte, come dice lui: “alimentando costantemente il desiderio e la paura”.

Parlando ancora di identità e corpo si analizza il lavoro di Molly Landreth, che con delicatezza utilizza il ritratto per volgere lo sguardo alla comunità LGBT, di cui essa stessa ne fa parte.

“La fotografia mia ha trasformato da una timida outsider a un’insider, sicura di sé. E presto mi sono rivelata come queer e come fotografa, a me stessa, ai miei amici e alla mia famiglia. Nessuno era veramente sorpreso. Credo che questo sia stato molto importante perché la fotografia e il mio essere queer sono arrivate nella mia vita mano nella mano”.

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Molly Landreth, Travis at Gay Skate


E così nel suo progetto Embodiment: a portrait of queer life in America, in sei anni in diversi stati d’America ritrae preti evangelici, drag kings, studenti del liceo, performer e amanti.

La categoria autoritratto è complessa e diversificata nel lavoro degli autori scelti. Arno Rafael Minkkinen cela il suo volto e ricerca con attenzione il luogo e il momento, Julia Kozerski ritrae se stessa per intero, il cambiamento del suo corpo, Liu Bolin si fonde invece col contesto, mimetizzandosi col luogo che ha scelto di rappresentare.

In Hiding in the City, Bolin scompare, facendosi dipingere dai suoi assistenti-pittori come ciò che vi è dietro di lui. Dai territori cinesi, grazie alla fama ottenuta, si fotografa a Londra e in Italia.

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Liu Bolin, Hiding in Italy, Teatro alla Scala n°2, Verona, 2010


In Narrare relazioni, tra le tre autrici selezionate c’è la fotografa israeliana Elinor Carucci, che concentra il suo lavoro all’interno del proprio nucleo familiare, ma lo fa in modo particolare.

Nelle immagini di Elinor i ruoli si mescolano, si confondono; figlia e padre sono ritratti come due amanti, madre e figlia come amiche e complici.

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Elinor Carucci, Mother and I, 2000


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Phillip Toledano, Days with my father, 2006-2009


Un tema affascinante quello analizzato in Morire: rapporto tra fotografia e morte. Phillip Toledano raffigura questo rapporto percorrendo diverse vie: alcuni dei suoi progetti trattano della morte di una persona importante, altri del processo di ristrutturazione interna che avviene quando si perde una parte di sé, come nel caso dell’arrivo di un figlio, altri ancora sono riflessioni sulla propria mortalità.

Chiudiamo il cerchio con la fotografia utilizzata per Interpretare i luoghi.

È un tema questo che mi sta particolarmente a cuore, in quanto strettamente legato alla mia fotografia, e due dei tre autori selezionati sono tra i fotografi che seguo da sempre e più stimo: Guido Guidi e Todd Hido, che interpretano i luoghi come memoria, come trascorrere del tempo, rappresentando posti prevalentemente a loro famigliari.

Hido, fotografando ripetutamente determinati paesaggi, materializza simbolicamente il suo passato e i ricordi: “ Cerco di fare in modo che le mie fotografie siano senza tempo. Cerco di rappresentare un ampio spazio temporale che possa parlare a più persone, che non permetta di dire che ci troviamo nel 2015, ma forse nel 1950 o nel 1980”.

Totalmente contrastante l’opera di Paolo Ventura, che non rappresenta la realtà così com’è ma mette in scena il suo mondo interiore, le sue visioni. Costruisce piccoli set con diversi materiali, con pupazzi, animali, strade e palazzi e tramite la luce e la fotografia dà loro vita.

“Io uso la fotografia non per fotografare quello che c’è fuori, ma quello che ho dentro. […] ho preso una scorciatoia, uso la credibilità della fotografia per rappresentare dentro una scatola il mio mondo immaginario che mi tiene compagnia da tantissimi anni”.

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Paolo Ventura, Winter Stories, 48/2008